Fatti di teatro di Francesca Romana Lino

Dennis Kelly intrappola le nostre ossessioni in un bunker

"After the end" suona da subito come un ossimoro. Cos’altro c’è, infatti, dopo la "fine"? E se qualcosa ancora c'e' - da raccontare, intendo -, allora forse non era davvero la fine.
Risuona di "Day after", alludendo in qualche modo alla pertinacia del sopravvissuto e alle immagini apocalittiche di chi, passato attraverso alla piu' aberrante delle distruzioni, in qualche modo ne e' uscito vivo. Ora non gli resta che ricostruire - a partire dalle macerie, che lo circondano.
Così questo "After the end", testo di Dennis Kelly, regia di Luca Ligato e con in scena gli intensi Alessandro Lussiana e Valeria Perdono', ci racconta tutto questo, portandoci in uno scenario post nucleare, per poi svelarci che la vera bomba atomica e' la fragile orologeria, che ticchetta in ciascuno di noi - pronta a esplodere nei tempi e modi piu' impensati.

La scenografia e' essenziale e al tempo stesso simbolica; cosi' come essenziale e simbolica e' la regia, che fa giocare un ruolo drammaturgico all'alternanza di buii e luci - utilizzate, quest'ultime, anche come spie amplificatrici di quella "sconnessione", che gli effetti sonori ben sottolineano. "Questo mondo e' completamente impazzito", si trova a dover ammettere Mark, ad un certo punto - e risuona lo shakespereano: "Time is out of joint (Il tempo e' scardinato)", principio di sgomento e presa di coscienza, che porto' il giovane Amleto a autodeterminarsi nell'azione.
A sinistra, quasi in primo piano, un tavolo con attorno due sedie e, dalla parte opposta, un po' piu' in profondita' il cubo con la scorta dei viveri. Lo sfondo centrale ripropone un accenno di parete rafforzata da bunker. L'annoso dilemma: "Quando una parete s'innalza, siamo chiusi dentro o chiusi fuori?" Dove sono, la protezione e la salvezza? Di certo l'asfittica sensazione della reclusione forzata, la si respira tutta - complice anche un testo, capace di svoltare per snodi drammaturgici minimi, ma la cui impercettibile somma poi porta alla detonazione di un totale che non e' soltanto quello aritmetico. Cosi' non fa specie la prima volta che Mark sembra esagerare, alludendo a cio' che Louise lo "costringere" a fare per potersi prendere cura di lei; e non fa specie neppure quando, a proposito del bunker curiosamente attrezzato in tempi non sospetti, il ragazzo sembra stizzirsi: "Eravamo in guerra anche prima della bomba…" - o, ancora, in riferimento alla costrizione dello stato attuale, e' sempre lui a dire: "Dobbiamo sforzarci di sopravvivere". Ma poi a mano a mano tutto torna: e si comprende la complessita' polissemica del suo dire. Parlava dello status quo? Probabilmente, si', ma: quale? Quello della loro reclusione reale nel bunker? O quello della segregazione di Mark nella propria esistenza da "escluso" dalla giostra dagli invaghimenti di Louise - cosi' la vede lui -, intrappolato in quello stigma di "amico", ma poi anche schernito per il suo essere un po' "secchione" e "maniaco del controllo"?  E' un'escaltion di fraintedimenti - affettivi e non - quel che ne consegue: violenze subite o imposte, dove continuamente tutto si ribalta. Non soltanto l'ambiguo gioco di vittima e carnefice - chi, infondo, tiene in pugno chi? -, ma, in questa scrittura, ciascuno e' al contempo vittima e carnefice di se stesso, prima ancora che dell’altro.

"Pensavi a Francis?", le chiede, in una delle scene iniziali, vedendola distratta. E questo gia' lascia trasparire come la bruttezza - o, in questo caso, il sospetto, il dubbio, la gelosia -, alla stessa stregua della bellezza spesso sia gia' negli occhi di guarda. E come non riflettere sul fatto che, aguzzino di Louise, di fatto Mark e', anzitutto vittima delle proprie ossessioni - oltre che carnefice di quel "good boy", maglioncino celeste, occhialoni alla Clark Kent e capelli impomatati, che lei stessa gli urla non essere? "Nel bar mi hai dato il voltastomaco", le confida, alludendo alla presunta intimita' con Francis, la sera dell'esplosione: si apre così uno dei piu' smaccati ribaltamenti di ruolo, in cui, se apparentemente e' lei a perdere il controllo - e a prendere il ruolo del carnefice -, di fatto e' solo questa nuova condizione di pazza scatenata a darle la liberta' di formulare l'ipotesi piu' inconfessabile: e fara' centro. Cosi' non e' un caso che lui la incatenera', per tenerla succube; e, come un animale, poi, a sua volta lei lo fara' ballare, su un piede soltanto, a contraccambiare la dose di sadismo, in questo alternato gioco di soverchierie. Fa pensare - all'ambiguita' dei rapporti ad esempio. Cosi' il sartriano: "L’inferno sono gli altri" sembra declinarsi anche nella voce: "Riesci a cavar fuori il peggio di me".

Sono bravi, Lussiana e la Perdono', nel declinare la complessa discontinuita' dei loro ruoli. Se lui si trova a dover far crescere un personaggio all'apparenza timido, gentile e servizievole - ma nel cui occhio serpeggia gia' il lampo folle del represso, pronto a esplodere -, lei gioca a tutto tondo con l'immagine della bella della compagnia, mixando l'arroganza di non e' abituato a chiedere con la disperata isteria di chi si trovi poi a doverlo supplicare, quel che per status era abituata a non dover neppure chiedere. E questo ci consente di apprezzarne il cromatismo interpretativo, che si scompagina, in una molteplicita' di sfaccettature precise e ben leggibili anche da un punto di vista tecnico.
Ma quel che risulta vincente e' l'elemento escalation: cresce, la drammaturgia - e, parallelamente, crescono, i toni e il ritmo, approdando ad un picco emotivo, che gli attori finalmente possono sciogliere in commozione, durante gli applausi. Ed anche questo, ci portiamo a casa: questo pathos - e la sua valenza catartica. Non si va, a teatro, per meno di questo.

Francesce romana lino
www.Fatti di teatro.it
30 Maggio  2015
 

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