Teatro e Critica di Sergio Lo Gatto
Al Teatro dell’Orologio di Roma arriva "After the End" di Dennis Kelly,
diretto da Luca Ligato. Recensione
Una strada del centro storico di Roma letteralmente bloccata da una folla di
persone. Un brusio uniforme e compatto, amplificato dalla conca dei palazzi,
dai quali adesso, in controluce, fa capolino una sagoma, alla finestra. Si
affaccia per capire che cosa stia accadendo, alle undici di sera di un
giovedi'. In via de' Filippini, a due passi da piazza Navona, non c'e' una
discoteca e nemmeno un wine bar alla moda. Quello che c'era ha chiuso
qualche mese fa. C'e' un teatro. e' l'Orologio, il "multisala Off" che
proprio in queste settimane spara le ultime cartucce della stagione, come i
tre colpi netti alla fine dei fuochi d'artificio. Uno di questi e' "After
the End" di Dennis Kelly. Uno spettacolo di cui si e' parlato molto, in giro
per i foyer, che ha gia' visto piazze prestigiose (sara' a Milano al Teatro
Elfo Puccini dal 19 al 27 maggio 2015) e adesso arriva in quella romana
convincendo praticamente tutto il pubblico e quasi tutta la critica.
Questo atto unico chiude l’intelligente focus Let's Get British - che ha
visto anche un testo di Duncan MacMillan e uno di Ben Moor - dando una
quadratura del cerchio al discorso sulla drammaturgia britannica, in
particolare analizzata nel momento della sua messinscena italiana,
esperimento gia' tentato da Rodolfo di Giammarco nelle quattordici edizioni
di Trend. Abbiamo una struttura semplice e che sempre giustifica le tre
pareti, un conflitto evidente, un finale quasi sempre prevedibile e, anche
in presenza di piu' di due personaggi, direzioni di dialogo rigorosamente
uno a uno. Non fa eccezione questo: in seguito a una misteriosa esplosione
nucleare, Mark (Alessandro Lussiana) salva Louise (Valeria Perdono')
portandola, svenuta, nel bunker antiatomico che ha scavato nel suo giardino.
Quello che era stato negli anni l'ennesimo motivo per prendere in giro lo "sfigato"
del gruppo diviene invece l'unica speranza di salvezza. E in un attimo la
moneta di un feroce ricatto psicologico. Mark, ossessionato da Louise,
trasforma la resistenza nel rifugio in un laido sequestro di persona, che
fara' regredire i due caratteri fino ai primordiali istinti di sopravvivenza.
E' presto chiaro che esplosione e "macerie che ricoprono corpi carbonizzati"
possano essere una montatura di Mark, eterno nerd compulsivo in cerca di un
rabbioso riscatto verso l'immagine della stizzosa borghesia. Ma il gioco
diventa osservare fino a che punto i personaggi si degraderanno a vicenda,
per veder emergere le pulsioni umane e, in un brivido, riconoscervisi dentro.
Ed ecco rispettati tutti i canoni di questo modello di drammaturgia. Senza
avere dubbi che l'assassino possa non essere il maggiordomo.
E allora che cosa stiamo guardando? L’esempio di questo allestimento di Luca
Ligato e' lampante: abbiamo in scena due attori potenti e generosi,
incredibilmente affiatati e competenti nel rubarsi la scena a vicenda, senza
tuttavia prevalere uno sull'altro. La regia qua e la' corre il rischio di
intingere il tutto in una salsa acida di esteriorita', in toni comandati, in
giri in tondo da belva in cattivita', in balzi, ruggiti, parolacce gridate
in faccia, finti stupri, finti strangolamenti, minacce al coltello e pianti
disperati che sfondano i denti di un sorriso. E se cercassimo di lasciarci
andare a queste emozioni cosi' epidermiche fatalmente resteremmo delusi, non
ci crederemmo, riceveremmo uno schiaffo di retorica e Mark e Louise
risulterebbero "fin troppo
didascalici e ovvi, poco inquietanti" [cit. Anna Bandettini].
Fortunatamente, se ha - e non sempre e' cosi' - una forza, la drammaturgia
britannica prepara per lo spettatore diversi livelli. Come fu per Blackbird,
pare evidente che tutto il rispetto e il caldo applauso rivolto soprattutto
agli attori, bollenti e sudati, resi tonici dalle svolte dentro un testo
molto più complesso della sua struttura - per altro qui rivisitata da
intelligenti e coraggiosi taglia e cuci - e' possibile, paradossalmente,
grazie proprio a quel testo. Che di fatto, a stomaci già provati, non arriva
poi cosi' "in her face", e che pure ha l’enorme pregio di sostenere la
presenza scenica grazie alla scrittura ritmica, alle ellissi delle frasi e a
certi giochi di lingua che nessuna traduzione, ahinoi, e' in grado di
restituire. Si tratta di un aspetto troppo spesso sottovalutato dai nostri
drammaturghi, impegnati a mettere in scena le parole senza il rispetto per
corpi e voci. Attori di livello possono esprimersi al meglio senza l’uso di
un testo, ma quando (di fatto) ripetono battute, occorre che quelle battute
siano in grado di incassare ogni schiaffo del diaframma, liberando invece di
incatenare. Ecco perche', con un testo simile e grazie a una regia puntuale
e a due interpreti potenti, la "storia" e il suo valore morale sembrano
passare in secondo piano. Quando invece sono intrisi nell’energia
sprigionata sulla scena.
SERGIO LO GATTO
www.teatroecritica.net
08 Maggio 2015